Scoperto il fenomeno responsabile dello scurimento della doratura ne La Maestà di Santa Maria dei Servi a Bologna e il risultato delle indagini è utile più in generale per mettere a punto strategie di conservazione preventiva del patrimonio artistico
La doratura caratterizza molti dipinti realizzati da celebri maestri dell’arte sacra italiana del tardo Medioevo, come Cimabue, Giotto, Duccio di Buoninsegna, Pietro Lorenzetti. L’oro, simbolo di regalità e devozione a Dio, era adoperato in foglia per impreziosire sfondi e dettagli decorativi; tuttavia, a causa dei suoi costi elevati, l’uso era in genere circoscritto alla creazione dei dettagli più preziosi, come le aureole.
Non è tutto oro quel che luccica! In numerosi dipinti di arte sacra, al posto della costosa foglia d’oro, è stata utilizzata una miscela composta da polvere d’argento metallico e orpimento cioè un pigmento giallo simile all’oro e destinato con il tempo a scurire e perdere lucentezza. La celebre Maestà di Santa Maria dei Servi, opera di Cimabue custodita nella omonima chiesa di Bologna, eseguita a tempera e oro su tavola, e databile attorno al 1280-1285, è tra le opere interessate da questo processo di imbrunimento.
Per capire le cause del fenomeno, un team di ricerca – guidato dall’Istituto di scienze e tecnologie chimiche Giulio Natta (Scitec) del Consiglio nazionale delle ricerche e dall’Alma Mater Studiorum dell’università di Bologna, in collaborazione con l’università di Perugia e l’università di Anversa – hanno esaminato campioni del pigmento dorato usato da Cimabue come sostitutivo della più costosa foglia di metallo.
Letizia Monico, ricercatrice del Cnr-Scitec e primo autore dell’articolo, ha fatto luce sul problema, rivelando che l’imbrunimento delle decorazioni “finto oro” del trono della Maestà è primariamente imputabile all’umidità e che tale fenomeno può aggravarsi se la pittura viene esposta alla luce.
Per ottenere tale risultato scientifico, molto rilevante per la messa a punto di strategie di conservazione preventiva dell’opera, sono stati analizzati un paio di micro-frammenti accuratamente prelevati da campiture inscurite della pala del Cimabue. L’indagine è stata effettuata sia con metodi di microspettroscopia vibrazionale in laboratorio, sia con tecniche impieganti sorgenti ai raggi X presso l’infrastruttura europea di sincrotrone Esrf a Grenoble e presso il sincrotrone nazionale tedesco Petra III-Desy ad Amburgo.
“Le micro-analisi effettuate al sincrotrone ci hanno permesso di dimostrare che l’imbrunimento è dovuto alla formazione di solfuro d’argento, un composto nero che, per semplificare, è lo stesso materiale responsabile dell’annerimento di tanti oggetti o gioielli d’argento. La trasformazione chimica, promossa dall’esposizione all’umidità e o alla luce, è accompagnata dalla formazione di ulteriori composti di degrado biancastri, quali solfati e arseniati”, spiega Monico.
“Lo studio del dipinto è stato integrato con indagini su provini pittorici a tempera invecchiati artificialmente, preparati utilizzando una miscela di orpimento e argento metallico, molto simile a quella identificata nelle decorazioni ‘finto oro’ del trono de La Maestà del Cimabue. I risultati mostrano che l’orpimento originale (chimicamente un trisolfuro d’arsenico), per reazione con l’argento metallico si trasforma in solfuro d’argento e in ossidi d’arsenico, in condizioni di elevata umidità relativa percentuale e/o in presenza di luce” aggiunge Aldo Romani, professore associato dell’università di Perugia, e co-autore del lavoro.
Si è così giunti alla conclusione che due sono i fattori su cui agire per mitigare e rallentare l’avanzamento del processo d’imbrunimento de la Maestà: esporre il dipinto a livelli di umidità relativa non superiori a circa il 30% e mantenere l’illuminazione ai valori standard previsti per i materiali pittorici sensibili alla luce.
“L’analisi sia del dipinto sia di provini pittorici di laboratorio, con tecniche d’indagine tra loro complementari e caratterizzate da elevata specificità, sensibilità e risoluzione laterale, ha permesso di comprendere l’origine e l’evoluzione di complessi processi di degrado. Tale approccio potrà quindi essere sfruttato con successo per esaminare opere d’arte eseguite con una tecnica analoga a quella del Cimabue e che soffrono di simili problemi di conservazione”, conclude Silvia Prati, professore associato dell’Alma Mater Studiorum e altro autore corrispondente del lavoro assieme a Monico.